Caro Matteo, sto iniziando a scrivere l’articolo più difficile della mia vita, che mai mi sarei immaginato di scrivere in questa maledetta domenica di sole di febbraio. Non ho parole per descrivere come mi senta, una parte di me si rifiuta di convincersi che di colpo tu non ci sia più. Ripenso a quel giovedì mattina in cui mi chiamasti per dirmi di rimandare al giorno dopo il nostro incontro perché era il compleanno di tua mamma e “i 70 anni vanno festeggiati”. Sono state le ultime parole che mi hai detto nella tua vita.
Caro Matteo, non so se provo più dolore o rabbia. Dolore per una vita spezzata, a 43 anni, con tutto il Bene che avevi ancora da fare. Dolore pensando a come si senta ora la tua famiglia, distrutta da un sentimento lacerante – comune a tutti genitori che perdono un figlio – che posso solo provare ad immaginare. E dolore pensando che non ci vedremo più: non è un distacco per qualche anno, è per sempre.
E poi rabbia. La rabbia che si prova quando ci lascia una persona infinitamente buona e generosa e si pensa a quanta erba cattiva e velenosa continui a crescere nel mondo. So che non sta a noi giudicare e che non è politicamente corretto dire certe cose, ma a te il politicamente corretto non è mai piaciuto…
Ci conoscemmo in campagna elettorale, nel 2011: pur come candidato sindaco di un Centrodestra disunito, costringesti il Sindaco uscente Concas al ballottaggio. Venni nella villetta dei tuoi genitori per parlare della pubblicità elettorale; mi accogliesti in giardino: maglietta, pantaloni corti e succo di frutta. Tu eri così, semplice, trasparente, senza masche-re. Ed era per questo che ti volevamo bene.
La cosa che mi fa più disperare è il non averti potuto salutare e, soprattutto, ringraziare. Possiamo dirlo, ci siamo sostenuti parecchio in questi anni. Nel 2015, quando ho iniziato l’esperienza di Metropolis, hai voluto esserci con la pubblicità del CAF, nonostante qualcuno ti sconsigliò di farlo, perché era sconveniente legarsi ad uno come me, che aveva la lettera scarlatta impressa addosso. Non sapevano che facendo così con te – che hai sempre avuto una parola sola e una sola faccia – ottenevano l’effetto contrario: infatti, tirasti dritto.
Subito dopo fosti tu a finire alla gogna per aver fatto cadere la Giunta Carrer: uno tsunami di fan- go e attacchi personali ti piovve addosso. Solo noi di Metropolis ti sostenemmo, dandoti spazio per spie- gare la tua posizione. Nel 2019, in occasione del centenario dell’appello Sturziano ai “Liberi e forti”, ci fu il nostro convegno sul Popolarismo, con la tua idea di mettere tra i relatori mio papà, che non parlava in pubblico da cinque anni… Ti consigliai di pensarci bene, perché ti avrebbero attaccato… Tu scrollasti le spalle e mi dicesti: “Lasciali parlare, non devo rendere conto a nessuno”. Qualche moralista forcaiolo ti criticò su facebook, ma riempimmo la Dugnana e il convegno fu un successo tanto che poi replicammo la formula a dicembre per l’anniversario della caduta del Muro di Berlino. Eri caparbio eppure sereno nel difendere le tue idee, mite ma forte come una roccia.
Nuovo capitolo nel 2020, nei primi mesi di pandemia, quando ti additarono come “untore” per la serata in parrocchia che, secondo alcuni, provocò un focolaio Covid: in un odioso clima da caccia alle streghe, sui social e in città, solo Metropolis ti diede la possibilità di replicare alla macchina del fango. Non ci siamo mai detti grazie: in fondo sapevamo che, quando ci si butta nel fuoco l’uno per l’altro, i grazie diventano superflui.
Prima di Natale, il nostro ultimo pranzo da Tilde & Raoul: nuovi convegni da ideare, le Regionali 2023, la collaborazione tra il CAF e Metropolis nel 2022. Pensavamo di avere tutto il tempo del mondo e invece il tuo sarebbe finito di lì a poco. Tutti noi adesso siamo più soli, più vuoti, più disorientati. Eppure dobbiamo avere la forza di trovare un senso, un’eredità, di non disperdere quello che ci hai insegnato in modo che tu continui ad essere presente nella nostra vita. Dobbiamo cercare di fare nostre la tua generosità e la tua disponibilità totale a fare del bene: sì perché la tua vita era tutta orientata a quello, dal tuo lavoro al CAF al volontariato in parrocchia. E dovremmo essere grati di aver incontrato una persona così preziosa, anche se per un periodo troppo breve.
Mi mancheranno i nostri cosiddetti pranzi di lavoro: arrivavi sempre tardi perché avevi un’ultima pratica da sbrigare in ufficio o qualcuno che ti bloccava all’ultimo momento per strada… Eri una sorta di catalizzatore per tutti i disperati che fanno fatica a destreggiarsi nella giungla intricata delle detrazioni e delle agevolazioni. Spiegavi con pazienza infinita e con il sorriso sempre pronto a persone che facevano fatica a capire (spesso erano stranieri): il tuo lavoro ti appassionava e – come spesso succede quando uno ama quello che fa – lavoravi molto, forse troppo. A volte eri stanco, ma non ti lamentavi mai. E mai ti tiravi indietro.
Però, quando ti sedevi a tavola, il lavoro rimaneva fuori. Era il momento di mangiare e bere bene, di ridere in modo un pò anarchico e scorretto. Una sorta di rito. Cominciavamo con un brindisi “a chi ci vuole male”, dopo aver rimandato indietro l’acqua dicendo alla cameriera di riportarla in cucina, che non volevamo mica arrugginirci… Parlavamo delle categorie che facevamo fatica a digerire: i voltagabbana, i politicamente corretti, gli arrivisti che, una volta eletti, si scordavano delle promesse. Il doppio giro di amari era come il siero della verità, il nostro pentotal… L’altra tua passione era la politica, quella in mezzo alla gente, come servizio alla comunità… Tanti di quelli che avevi sostenuto erano arrivati in alto, mentre tu andavi all’alba a montare i banchetti e a volte ti era rimasto anche qualche conto da pagare… Lo sapevi che la gratitudine non è di questo mondo (politico), a volte sbottavi (mai con rancore), ma alla campagna elettorale successiva eri lì pronto, in prima linea. Lo scorso ottobre, pur nella sconfitta del Centrodestra, eri uscito come unico vincitore della minoranza: mi descrivesti le potenzialità della nuova stagione pioltellese. Poi ci salutammo come tutte le volte, non immaginando che fosse l’ultima.
Di te mi resta il rosario che mi portasti dalla Terra Santa: l’ho messo nella cameretta di mia figlia, sopra il suo letto, quasi a proteggerla dal Male che c’è nel mondo. Un giorno, le racconterò chi eri e perché mi portasti un rosario e non una calamita da attaccare sul frigo.